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maiale nell'allevamento intensivo

Ho mangiato troppa carne e vi spiego perché


Lo scrittore e personaggio tv Lorenzo Biagiarelli sfata i miti dietro al consumo di carne e racconta come ha scelto un’alimentazione più rispettosa di animali, ambiente e persone

Come racconto nel mio libro, “Ho mangiato troppa carne” perché sono un cittadino europeo, ma avrei potuto anche essere statunitense, coreano, argentino o australiano. Sono nato dalla parte del mondo fortunata, al riparo dalla fame e dalle carestie, ma anche dalla parte del mondo dove la carne e i prodotti animali sono diventati il cibo per antonomasia, invertendo la piramide alimentare che adesso, alla base, ha la macellazione di 80 miliardi di animali terrestri, uccelli e quasi tremila miliardi di pesci ogni anno. 

Ho mangiato troppa carne soprattutto perché mi piace, è il mio alimento preferito in qualsiasi sua forma o derivazione, e il fatto di non mangiarla più non mi fa negare l’evidenza. Ma ho anche smesso di negare l’evidenza del sistema perverso di dominio su cui la nostra alimentazione è fondata: ho iniziato a pensarci quando in Corea del Sud mi sono rifiutato di mangiare zuppa di cane, mentre ho continuato a mangiare grigliate di manzo o stufati di pollo. 

In un wet market in Cina, dove le mezzene di cane erano già cotte sul bancone mentre i gatti stavano nelle gabbie pronti a diventare cibo, mi sono chiesto: in che cosa sono diverso io? La risposta, ovviamente, è in nulla, mangio solo animali diversi. Tornando dalla Corea la mia compagna ha detto: “Non voglio mangiare più carne”. Così ho smesso di cucinarla in casa e, con mia grande sorpresa, ho scoperto che è facilissimo mangiare senza cucinare animali.

Adesso mangio meglio in senso assoluto, perché la prima cosa che succede in automatico quando togli la carne è che mangi più verdura, di cui non ci nutriamo a sufficienza con conseguente carico sul nostro organismo e sul sistema sanitario nazionale. Mi ha cambiato la vita scoprire che smettere di mangiare carne è un vero atto di sopravvivenza: come individui e come specie, del pianeta e, soprattutto, degli animali.

I dati sull’impatto dell’allevamento sull’ambiente, in particolare in riferimento alle emissioni climalteranti, infatti, sono ormai incontrovertibili, e quindi ho voluto vedere se ci fosse cibo oltre agli animali. Ho scoperto alimenti millenari, come seitan e tofu, e nuovi prodotti, come i ‘formaggi’ vegetali e la ‘carne’ da proteine di pisello, ho esplorato le infinite varietà di legumi e verdure che avevo sempre trascurato, abituato come ogni buon italiano a considerarle come contorno, o nel migliore dei casi come ‘piatto di magro’, buono per il venerdì santo o la penitenza. 

Eppure l’Italia, fino all’inizio del ‘900, era un paese da cui si scappava per la fame, non certo un bengodi di amatriciane e polli alla cacciatora come ce lo descrivono: quale tradizione poteva attecchire in quella miseria, se non la polenta o i legumi a ogni benedetto pasto? Quando però l’allevamento intensivo è diventato realtà e la carne ha cominciato a invadere il mercato, c’era bisogno non solo di inventare ricette, ma pure valori nutrizionali irresistibili e nessun effetto collaterale, un po’ come era stato fatto qualche decennio prima con le sigarette. 

E allora era necessario mentire, attribuendo alle bistecche proprietà quasi taumaturgiche, suggerendo che più carne si mangia, meglio è. E si continua a mentire anche oggi, nella forma dell’omissione di comunicazione: quante persone sanno che le carni processate, e quindi anche salumi e insaccati, sono dei cancerogeni certi alla pari dell’alcool e delle sigarette? Quanti bambini sanno che una bistecca è un animale morto? Il paradosso è che ciò continua a avvenire nel periodo storico in cui si parla più di cibo che di qualsiasi altra cosa. 

Nel 2024 sappiamo tutto di come una coscia di maiale diventa un prosciutto. Ma niente di come un maiale diventa una coscia. E questo è l’unico presupposto con cui si può continuare ad alimentare consumi insostenibili su questa scala: mentendo e omettendo.

Poco importa che la tradizione della cucina italiana sia quasi sempre inventata e affondi le radici non nella cucina dei nostri bisnonni ma, piuttosto, nei primi banchi dei supermercati nati al finire degli anni ’50, spesso dalle stesse aziende che tutta quella carne, mai prodotta in quantitativi simili nel resto della storia del paese, la dovevano vendere a chi non l’aveva mai mangiata. 

Oggi i consumi di proteine vegetali sono in crescita, le macellazioni in calo, e in generale il discorso ‘sulla carne’ comincia a occupare un posto nello spazio pubblico che non ha precedenti.

Per questo motivo, però, le forze che remano in direzione opposta sono sempre più arroganti: il ministro della Sovranità Alimentare ha lanciato la proposta di inserire la ‘tutela dei prodotti simbolo dell’Identità nazionale’ addirittura nella Costituzione. 

Il rischio è che la produzione di prosciutti e formaggi, un giorno non lontano, possa essere protetta dalla legge, forse imponendone i prodotti nelle mense scolastiche, sovvenzionando ancora di più i produttori alle prese con un calo degli acquisti e promuovendo nuove e roboanti campagne promozionali.

L’impressione, anche alla luce della legge sulla carne coltivata, è che vogliano provare a ‘obbligarci’ a mangiare carne, e che stiano pensando esattamente a come fare. Un colpo di coda di un mercato che sa di avere i giorni contati.

In questo contesto, il margine di azione di un cittadino è limitato. Può smettere di mangiare animali, convincere le persone che ama a fare altrettanto, e votare bene.

Se la politica, però, non smette di essere al servizio del Pil e delle aziende che vi contribuiscono (e quelle della carne contribuiscono molto) e non comincia a essere al servizio del cittadino, della sua salute e di quella degli altri esseri viventi, allora la scelta singola resta marginale. 

Partendo dall’alto, le istituzioni europee potrebbero smettere di sovvenzionare, attraverso la Politica Agricola Comune, il settore zootecnico intensivo e la sua promozione pubblicitaria, restituendo ai prodotti animali un valore non dopato dai sussidi.

La politica nazionale potrebbe prendere atto del fatto che se la carne produce 30 miliardi di euro all’anno ne costa però 36 in spese ambientali e mediche, e intervenire quindi non solo nell’interesse della salute e dell’ambiente, ma anche in quello dell’economia. 

Come persone non dobbiamo rinunciare però al ruolo che possiamo avere sulle nostre scelte alimentari e smettere di mangiare ‘troppa carne’. Io suggerisco di cominciare dal nostro cibo preferito.

Pensavo che senza prosciutto crudo non si potesse vivere, e pertanto è stata la prima cosa che ho smesso di acquistare. Ho capito allora che se era possibile vivere senza quello, non sarebbe poi stato più complicato rinunciare a cose che mi interessavano di meno. 

Suggerisco sempre di ascoltare la propria testa. Se tentare di essere intransigente ti deprime, allora non esserlo. Eliminare i prodotti animali dalla propria vita, per molte persone, può essere come lottare contro una dipendenza, e il morale ha un ruolo fondamentale.

Sappi che quello che stai facendo, nel tuo piccolo, è già molto importante, e che la virtù non è una gara: non hai il potere di porre fine allo sfruttamento animale da solo, l’importante è che continui a camminare in quella direzione. 

Per farlo, credo sia importante esplorare senza pregiudizi. Comincia a sostituire le proteine alle tue ricette preferite senza modificare il resto degli ingredienti: scoprirai che il ragù viene bene anche con il granulare di soia, che le scaloppine al marsala si possono fare anche con il seitan e che il burger di proteine di piselli è ottimo.

E pensa al fatto che con ognuno di questi pasti stai lasciando un po’ più di acqua, di terra, di aria pulita al pianeta. Perché, come ha detto forse una volta Gandhi, «Qualsiasi cosa tu faccia sarà insignificante, ma è molto importante che tu la faccia».

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