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Come le città nascondono gli animali usati a scopo alimentare


Le città sono pensate per aiutare chi le abita a non avere consapevolezza di cosa accade agli animali non umani. Gli spazi urbani sono abitati solo da specie a cui è concessa la vita urbana, da specie che violano i divieti e vengono per questo schiacciate nel calderone degli animali parassitari o infestanti o ancora da specie che, più banalmente, non sono considerate.

Eppure, non sono solo queste ad attraversare e a riempire la città, anzi, altre specie non umane entrano ogni giorno, in forma irriconoscibile.

Stanno adagiate le une sulle altre, ordinatamente impilate in camion refrigerati pensati per conservare, esposte in vetrina, adagiate sul fondo di un carrello, cestinate in quello di un sacco della spazzatura perché la conservazione non può certo impedire i normali processi di decomposizione, avvolte con cura attorno ai piedi e alle caviglie delle persone umane, sfoggiate in testa o su una pagina Instagram aggredita da hashtag.

Entrano, ma non escono. Entrano, ma in incognito, irriconoscibili. Celate così bene da poter essere messe in mostra ogni secondo, da poter essere consumate senza sosta e da poter non essere considerate. Eppure, sono vite animali quelle che vengono vendute, seppure fatte a pezzi  e rielaborate per ricordare tutto fuorché il processo che sta alla base della loro presenza.

Rimosse, nascoste, le vite animali stanno là dove non possono essere viste, periferizzate in quel margine buio in cui tutto è consentito, persino uccidere e inquinare alla luce del sole.

Gli allevamenti e i macelli appaiono nelle mani di chi non vi lavora solo come luogo di produzione o lavorazione, una scritta o un codicino a margine non considerato da chi afferra il pacchetto in plastica e polistirolo di lonza, facendo attenzione che sia quello che contiene meno sangue.

Ciò che ha estratto da un individuo, un maiale, quel frammento di corpo chiamato lonza, sul pacchetto non si vede. Non si sente e non si deve nemmeno dire il processo di allevamento, con tutta la crudeltà delle inseminazioni in serie, dei parti controllati, delle separazioni tra madri e cuccioli, delle violenze.

Come il taglio della coda, la gabbia, i colpi dati per controllare l’animale, gli spostamenti, la concentrazione di centinaia, se non migliaia, di animali nello stesso spazio. Ed infine del trasporto alla morte, dell’uccisione e dello squartamento che ne conseguono. Questa parte essenziale che trasforma una animale abusato in un cadavere, scorporato per essere prodotto da vendere, non deve essere palesato.

Nulla di tutto questo va detto, raccontato o mostrato. Perché si sa, le persone sono sensibili alla violenza, empatizzando potrebbero restarci male. Potrebbero restarci così male da smettere di infilare i tranci di petto di polli geneticamente selezionato per essere sproporzionato rispetto al corpo, nel carrello.

Potrebbero non voler più acquistare le uova, nemmeno quelle da allevamento a terra, sapendo che la produzione necessità di ritmi che uccidono le galline ovaiole, che i loro cicli produttivi sono alterati al punto da portarle a morire di peritonite, che la loro presenza in uno spazio chiuso, controllato e finalizzato alla produzione è una violenza.

Potrebbero smettere di comprare il latte animale, scoprendo che non è un alimento adatto all’essere umano, figurarsi ai bambini, prodotto grazie a gravidanze continue, a separazioni e uccisioni di vitelli. Potrebbero non comprare quelle sezioni di salmone sapendo che si tratta di un animale che ha vissuto in uno spazio così ristretto da ritrovarsi a cannibalizzare altri come lui per vivere.

Potrebbero non credere che il pesce pescato, sottratto con la forza alla sua vita e libertà sia tanto meglio e saltare tutto il reparto pesce. Potrebbero, ma non non lo fanno, perché ci sono codici di comportamento che impediscono questa consapevolezza.

Nascondere atti, volontà e processi là dove sono meno tangibili permette di non doverci pensare più, garantisce a chi entra nel supermercato, in macelleria o nell’allevamento estensivo, di credere che sia davvero qualcosa di ordinario e innocuo consumare animali.

Contribuire all’uccisione animale e consumarne i prodotti viene visto come normale, come nulla di male. Anzi è chi non lo fa ad essere considerato fuori norma. Come la morte animale viene derubricata a norma, anche gli effetti degli allevamenti e dei macelli vengono considerati meno rilevanti.

Gli allevamenti, globalmente, sottraggono circa il 10% dell’acqua presente sul pianeta, contribuiscono a immettere almeno l’80% delle emissioni derivate dalle attività “agricole”, occupano fisicamente il 24% delle terre emerse e impiegano il 33% della terra arabile per la produzione di mangimi necessari a foraggiare animali destinati ad essere uccisi quando i tempi produttivi lo richiedono.

Le conseguenze derivanti dalla loro presenza sul territorio sono le più disparate, dalle infiltrazioni nelle falde acquifere alla presenza costante dell’odore di materiale organico in decomposizione e feci nelle zone immediatamente limitrofe, ma sono esperite solo da chi attraversa quegli spazi, il più delle volte perché conduce una vita legata alle attività delle industrie della produzione animale.

Ci sono poi conseguenze meno visibili, esperite da chi pratica ogni giorno procedure di contenimento, gestione, uccisione e scorporamento degli animali non umani, ovvero un incremento significativo dei disturbi di ansia, delle flessioni umorali, della dipendenza sostanze e l’insorgenza di sindromi da stress post traumatico. Uno sviluppo di patologie che vengono a loro volta invisibilizzate, considerate meno rilevanti e per questo non trattate. E con esse anche la propagazione della violenza.

Commettere atti violenti, come lo sono tutte le procedure necessarie all’allevamento degli animali non umani, come lavoro significa viverli come qualcosa di normale, di necessario e che viene addirittura incoraggiato, visto che da essi dipende lo stipendio do operatrici e operatori.

Vivere la violenza come norma significa integrarla nella propria vita, senza confinarla necessariamente negli stabilimenti di lavoro. I tassi di propagazione negli spazi domestici della violenza da catena di montaggio sono inquietanti dimostrazioni di quanto l’industria della produzione animale si erga sull’abuso, umano e non. 

Questo accade là fuori, lontano da questo schermo, lontano dalle vetrine che illuminano il prodotto di una scuoiatura o di uno smembramento, nelle periferie del mondo, quelle immediatamente vicine ma abilmente nascoste dal sistema produttivo, rese meno importanti in nome del profitto. Quei miliardi di animali allevati ed uccisi ogni anno. 

Le città, però tutto questo non lo dicono, di tutto questo è meglio non parlare.

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