Il pesce è finito: sfruttamento dei mari, allevamenti intensivi, ecco quello che stiamo facendo a questi delicati animali e all’ecosistema
La seconda puntata della nostra intervista a Gabriele Bertacchini, naturalista specializzato in comunicazione e divulgazione ambientale
Continua il nostro viaggio nel mondo dei pesci insieme a Gabriele Bertacchini – naturalista specializzato in comunicazione e divulgazione ambientale e autore di podcast sul tema animale e ambientale – autore del libro “Il Pesce È Finito, lo sfruttamento dei mari per il consumo alimentare”, un testo molto interessante dedicato ai pesci, all’ambiente marino, ma soprattutto a quelle riflessioni che devono scaturire in noi per farci comprendere che tutto questo non è scontato e che il rispetto per la Terra e gli animali è una condizione fondamentale non solo per la loro ma anche per la nostra esistenza.
Ieri abbiamo visto come la pesca sta depredando i mari e sta uccidendo miliardi di animali, di fatto impedendo al nostro Pianeta di rigenerarsi e rischiando di portare all’estinzione molte specie di pesci.
Nel caso della pesca intensiva quindi la soluzione dovrebbe essere quella di mettere dei divieti da parte delle istituzioni invece di dare incentivi e sussidi con i soldi dei cittadini…
Bisogna assolutamente ridurre drasticamente la pesca e i consumi. Io sono totalmente contrario agli incentivi che vengono fatti a livello agricolo, a sostegno anche della pesca. Diciamo le cose come stanno: oggi la pesca non serve più per soddisfare un bisogno di cibo, serve per soddisfare un bisogno di lavoro e un bisogno economico. Quindi come tale è un’impresa e ha i suoi rischi di impresa.
Non vedo perché i finanziamenti pubblici devono andare a finanziare la pesca. I finanziamenti pubblici- visto che si parla di transizione – dovrebbero servire per aiutare quelle imprese a svincolarsi da quel lavoro che non potranno più fare futuro, bisogna portare i pescatori e lo sfruttamento dei pesci ad altro, ad altre attività economiche. In passato sono stati dati finanziamenti pubblici a pioggia anche per incentivare nuovi attrezzi di pesca che poi altro non hanno fatto che aumentare il problema. Nel libro parlo del caso del merluzzo bianco nella zona dei grandi banchi, nella zona canadese di Terranova e lì con degli incentivi si è cercato di dotare le barche con strutture sempre più invasive per il mare e questo ha finito per svuotarlo.
Questi finanziamenti possono essere utili e accettabili solo se dati per una transizione ad altre attività economiche, perché non c’è più pesce e bisogna farsene una ragione.
Gabriele Bertacchini
Si è pensato anche di dare degli incentivi per installare telecamere di sorveglianza sulle grandi barche che si sono già macchiate di illeciti. Alcuni partiti si sono schierati contro, ma se io non ho nulla da nascondere perché dovrei essere contrario?
L’Italia per altro è terreno fertile anche per la pesca illegale e per il superamento delle quote massime previste per la pesca con attività di frodo.
Il discorso delle quote è comunque complesso, perché è vero che di fatto finisce per favorire le grandi navi e non i piccoli pescatori, con cui comunque io di base non sono d’accordo. Anche nel Mediterraneo navigano diverse barche che battono bandiere di altri stati e il gioco delle quote favorisce le grandi navi. Poi però c’è tutto un discorso di pesca illegale, nel senso che la pesca illegale in diverse zone del Mediterraneo continua ad esserci: pensiamo soltanto al pesce spada, con le spadare che sono vietate da diversi anni però ogni anno ancora vengono sequestrate.
Il tema è anche che fare controlli all’interno di un ambiente marino non è nemmeno così semplice perché stiamo parlando di qualcosa di immenso, non solo in Italia ma anche a livello globale. Ma quando parliamo di pesca illegale parliamo di un valore che si avvicina al 30% della pesca globale, quindi non valori di poco conto e che hanno un forte impatto sui pesci: per esempio il pesce spada è diminuito del 70% per via dell’utilizzo di strumenti di cattura vietati ma che venivano comunque utilizzati per pescare per mero guadagno economico dettato dalle logiche dell’industria, senza contare che però stai cercando di fare reddito con una risorsa ambientale e quindi il concetto stride.
Qui infatti entra in gioco il tema degli allevamenti, che l’industria vende come soluzione più sostenibile, ovviamente sulla pelle degli animali, dei pesci in questo caso, e nascondendo il reale impatto di queste immense gabbie intensive poste poi sempre nel mare. Cosa ne pensi?
Sono assolutamente contrario. Oggi sappiamo, dati Fao alla mano, che il settore dell’allevamento fornisce circa il 53-55% dei prodotti ittici ed è in continuo aumento.
Dal punto di vista etico questi allevamenti di pesci hanno tutti i problemi degli allevamenti terrestri: stiamo parlando di animali che comunicano in un modo diverso dal nostro e quindi non vengono ascoltati, ma in questi luoghi le loro necessità vitali di spostamento e di aggregazione sono costantemente violate.
Gabriele Bertacchini
Per quanto riguarda l’impatto ambientale bisogna ricordare che tutti gli ecosistemi hanno degli equilibri ben precisi sia per il numero di animali che possono ospitare sia per la tipologia. La natura non si può “fregare”. Mettere tanti animali concentrati in un luogo dove dovrebbero essercene molti meno finisce per alterare i cicli marini per esempio dell’azoto o del fosforo per via dell’aumento di liquami che finiscono sui fondali, per esempio.
Per non parlare delle farine che vengono date ai pesci come cibo e degli scarti alimentare: questi animali non mangiano tutto e gli scarti da qualche parte finiscono, andando ad alterare la fauna e la flora bentonica locale che crea un effetto a cascata sugli altri animali che vivono nel mare. Ma oltre a tutto questo c’è anche un tema di approvvigionamento: per motivi di presunta sostenibilità si sta cercando di far diventare i pesci vegetariani (un elemento che già dovrebbe far sorgere delle domande, perché non è chiaro perché i pesci dovrebbero mangiare alimenti fuori dalla loro alimentazione corretta) dando loro della soia, che di certo non si trova in fondo al mare, ma piuttosto proviene proprio da quelle zone del Sudamerica colpite dalla deforestazione e quindi già si capisce come non si possa parlare di sostenibilità.
Guarda come vivono i salmoni allevati per la loro carne in Scozia
Per quella parte invece che viene fatta con altri pesci, magari piccoli pesci pelagici, pescati in Africa o dall’altra parte del mondo che potrebbero avere un valore alimentare importante per quelle popolazioni locali e che invece vengono prelevati dai paesi più ricchi per dare da mangiare ai salmoni in allevamento di cui i paesi più ricchi vogliono continuare ad alimentarsi.
Secondo l’università canadese dal 1950 al 2010 il 27% del pescato è finito in farina per allevamenti di pesce e allevamenti terrestri, e non sono dati di attivisti, sono dati di ricercatori. Stiamo utilizzando male le risorse e soprattutto se contiamo che un terzo del cibo viene sprecato (dati FAO) stiamo producendo cibo che non serve. Possiamo vivere anche senza caviale e salmone, questa è la realtà.
A questo si aggiungono anche i tanti parassiti che infestano questi animali, confinati in gabbia ammassati gli uni sugli altri, e sia i parassiti sia le sostanze che poi vengono usate per debellarli finiscono in mare. Se non si riducono i consumi e la produzione non riusciremo a risolvere tutti i problemi legati al mare, ai pesci e all’impatto di tutto questo: abbiamo rotto il nostro legame con la natura e quindi anche i pesci non li vediamo più come amici o come compagni di viaggio ma qualcosa da sfruttare.
Quando ci immergiamo in acqua si crea una sorta di legame emotivo con i pesci, che ti attorniano, ti circondano, ma questo sistema industriale di sfruttamento asettico ha reso gli animali un qualcosa con cui fare economia e non siamo più capaci di prenderci cura di loro.
Come possiamo fare per invertire la rotta, rendere le persone e le istituzioni più consapevoli e in grado di fare scelte migliori?
Allora, ci sono una serie di difficoltà. La prima è che noi non vediamo il mare, l’animale vivo, ma sui camion arriva in città un prodotto pronto, senza il mare. E questo è un primo filtro che rende difficile prendere consapevolezza. Io parlando nelle scuole e facendo incontri posso dire che la maggior parte delle persone comunque è curiosa e vuole essere informata e consapevole su queste tematiche. C’è il tema delle istituzioni, che a livello alto, sanno tutto questo.
Ma ci sono delle lobby molto potenti, come la lobby della pesca, che continuano a voler fare i loro interessi, esattamente come le lobby del petrolio.
Gabriele Bertacchini
Quindi il cortocircuito è in questo. Io penso che l’Europa adesso sia ancora troppo timida nell’affrontare il problema della pesca e dello sfruttamento dei pesci. Se ne parla ma troppo poco, non si fa abbastanza cercando di tutelare il modello economico che invece è sbagliato.
Certo però che anche le persone hanno una colpa nel momento in cui vogliono mangiare salmone tutti i giorni, beh, si rendono in qualche modo partecipi. Con la pandemia ci siamo scontrati con un modello che fa acqua da tutte le parti ma alcune persone vogliono comunque sempre lo stesso modello, nonostante tutto, è un circolo vizioso tra mercato e consumatori. Anche i consumatori possono fare la propria parte scegliendo un modello diverso.
Poi è fondamentale vietare alcuni metodi di pesca, diminuire le licenze e portare ad una transizione per l’abbandono di pesca e allevamenti, che dovrebbero essere vietati senza allargamenti e senza nuove aperture, imporre quindi anche all’industria del pesce un cambiamento per il futuro di tutti.
Come abbiamo più volte ripetuto in questa intervista è fondamentale lavorare per far sì che si crei tra sempre più persone una connessione con questi animali, i pesci: capirli è fondamentale per capire la loro sofferenza. Noi di Animal Equality continueremo a mostrare quello che accade ai pesci affinché sempre più persone possano comprendere la loro sofferenza e possano fare scelte più compassionevoli. Ognuno di noi, infatti, può scegliere di non finanziare tutto questo semplicemente tenendo il pesce fuori dalla propria alimentazione.