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Antibiotici e allevamenti: una lunga storia che deve finire


L’utilizzo degli antibiotici nel settore zootecnico non è una novità, è anzi connaturato all’impennata del consumo di alimenti di origine animale che si è verificata negli ultimi cent’anni. Anche  l’Italia non è esente da questo trend, anzi è uno dei paesi che utilizzano  maggiori quantità di farmaci all’interno degli  allevamenti. Questo abuso di antibiotici è causa di numerose   minacce alla salute pubblica, una su tutte: l’antibiotico-resistenza, e cioè la graduale perdita di efficacia dei farmaci antibiotici data da un uso indiscriminato degli stessi.

Secondo il più recente rapporto dell’Ema (Agenzia europea del farmaco), tra i paesi membri dell’Unione Europea l’Italia si trova ben al secondo posto per consumo di antibiotici, soprattutto per il loro utilizzo massiccio sugli animali negli allevamenti, un dato poco rassicurante.

Cosa provoca l’antibiotico-resistenza? Guarda il video

Come e perché si è sviluppato l’utilizzo degli antibiotici negli allevamenti?

  1. Funzioni terapeutiche

Fin dalla loro comparsa, i farmaci antimicrobici hanno avuto un forte impatto non solo sulla vita umana, ma anche su quella animale. L’articolo Pharming animals: a global history of antibiotics in food production, pubblicato sulla rivista Nature, ricostruisce il rapporto sempre più stretto creatosi tra allevamento e antibiotici dal 1935 al 2017. Ciò che ne emerge è “Una storia di proliferazione di antibiotici intimamente collegata all’industrializzazione e all’integrazione della produzione agricola a livello globale rafforzata dalle promesse di prosperità e sviluppo nel contesto della Guerra Fredda”

Nel XX secolo infatti, i popoli occidentali hanno iniziato a consumare moltissima carne rispetto a ogni epoca precedente, con un tasso di aumento superiore alla crescita demografica. Ovviamente ci sono disparità tra le nazioni con differenti livelli di reddito, ma tali differenze rispecchiano il collegamento simbolico tra consumo della carne (e allevamenti intensivi) e una certa idea di progresso. Come sappiamo, separare gli animali dal proprio habitat naturale e rinchiuderli in capannoni è stata la “soluzione” industriale preferenziale degli ultimi cent’anni, ma questo non poteva che avere conseguenze negative sulla loro salute, e dati gli spazi estremamente ridotti e inadeguati in cui gli animali sono stati confinati, contenere le epidemie negli allevamenti era diventato praticamente impossibile.

In questo contesto, l’invenzione degli antibiotici è stata provvidenziale per produttori e allevatori, che hanno iniziato a utilizzarli per controllare la diffusione di patologie tra gli animali, incrementare la produzione, ridurre i costi associati al lavoro (in precedenza occorrevano cure veterinarie per ogni singolo animale che si ammalava) e contenere il rischio economico legato alla propria attività.

  1. Funzioni non terapeutiche

Gli antibiotici sono diventati immediatamente essenziali per questa categoria produttiva, ma gli esperti hanno mosso critiche all’uso massiccio di questi farmaci fin dagli anni ‘40, purtroppo inascoltate o comunque scavalcate dal vantaggio economico offerto dalle nuove risorse.

In pochi anni, l’impiego degli antibiotici si è allargato anche a funzioni non terapeutiche: verso la fine degli anni ‘40 i Lederle Laboratories, affiliati all’azienda chimica American Cyanamid, hanno fatto una scoperta che ha procurato ingenti guadagni sia al settore zootecnico sia a quello farmaceutico, cioè la possibilità di sostituire i costosi integratori di vitamina B12 serviti agli animali con gli scarti della fermentazione degli antibiotici, con l’ulteriore vantaggio di far aumentare il peso degli animali più rapidamente. I nuovi mangimi addizionati con antibiotici promotori della crescita (i cosiddetti AGP) sono stati autorizzati nel 1951 negli Stati Uniti e negli anni immediatamente a seguire nelle nazioni europee, trovando come prima applicazione il settore avicolo, seguito da quello dei suini e dei bovini. Già nel 1958, il 50% dei maiali allevati in Gran Bretagna era nutrito con antibiotici e quasi tutti i maialini non ancora svezzati avevano accesso alle tetracicline; nel 1966, l’80% dei mangimi per animali da allevamento della Germania Ovest contenevano additivi antibiotici.

Farmaci e antibiotici sono stati successivamente utilizzati anche per compensare le conseguenze dannose dell’alimentazione scorretta a cui vengono sottoposti gli animali o l’abbassamento della qualità della carne dovuta allo stile di vita insalubre che sono costretti a condurre. Per esempio, a metà degli anni ‘60 i mangimi addizionati sono entrati nella profilassi per contrastare l’insorgenza di ascessi epatici sviluppati dagli animali a causa dell’alimentazione troppo ricca di cereali, mentre nell’Unione Sovietica l’utilizzo libero dei farmaci ha fatto sì che i produttori alleviassero lo stress degli animali da reddito tramite psicofarmaci.

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Le reazioni delle istituzioni e dei consumatori

Gli esperti hanno mostrato preoccupazione per la salute umana già nei primi anni di impiego degli antibiotici in zootecnia. A metà degli anni ‘50, gli americani sono rimasti scioccati scoprendo che fino al 10% del latte statunitense analizzato a campione era contaminato da penicillina, una reazione che ha portato alla creazione del primo programma di monitoraggio dei residui di penicillina nel latte e all’insorgere di simili preoccupazioni del pubblico anche europeo nei riguardi dei conservanti antibiotici contenuti nella carne (vietati in Germania Ovest nel 1958).

In generale, gli anni ’60 hanno visto emergere le preoccupazioni dei consumatori, nascere i primi comitati di osservazione e la pubblicazione di uno studio in Gran Bretagna – il Rapporto Swann del 1969 – che sottolineava la capacità dei batteri di trasmettere antibiotico-resistenza attraverso specie diverse e che tale resistenza poteva svilupparsi contemporaneamente contro molteplici antibiotici.

Dagli anni ‘70, le istituzioni di vari paesi occidentali hanno intrapreso un lavoro di revisione e restrizione dell’utilizzo di antibiotici negli allevamenti la cui efficacia è stata purtroppo marginale: le misure non erano abbastanza diffuse o durevoli per far scaturire riforme internazionali, perciò il consumo globale di antibiotici ha continuato a salire perfino in quei paesi che avevano implementato limitazioni sugli AGP, sia per ragioni legate alla mancanza di trasparenza politica e al facile accesso ai farmaci, come nel caso dell’Europa occidentale, sia perché dagli anni ‘60 in poi si sono sviluppati, in Europa e in America, mercati neri e grigi che offrivano un modo facile per violare i regolamenti. Un’inchiesta del Congresso statunitense del 1985 ha rivelato che il 90% dei farmaci destinati agli animali d’allevamento non era stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA).

In Europa, gli sforzi per la riduzione e il divieto di antibiotici e AGP in zootecnia sono stati portati avanti individualmente soprattutto dai paesi scandinavi dagli anni ‘80, esercitando inoltre pressioni sull’Unione Europea per ottenere limitazioni più efficaci.

Nonostante il consumo di antibiotici sia effettivamente calato nell’ultimo decennio, le quantità rimangono alte e i sistemi di produzione intensivi che necessitano di antibiotici continuano ad essere esportati in altre parti del mondo.

Secondo un’inchiesta di Milena Gabanelli e Simona Ravizza sull’antibiotico-resistenza, l’Italia non è soltanto al secondo posto in Europa per consumo di antibiotici, ma anche per infezioni resistenti a questi farmaci. I tentativi di tracciare l’acquisto di farmaci per i singoli animali con l’obbligo di prescrizione elettronica a partire da aprile 2019, inoltre, non sembrano ancora dare risultati. Alla fine del 2018 sono stati approvati nuovi regolamenti europei sulla medicina veterinaria che entreranno in vigore il 28 gennaio 2022 e prevedono lo stop all’utilizzo di antibiotici in via preventiva, restrizioni sull’uso di antibiotici a scopo terapeutico, il divieto di utilizzare antibiotici per promuovere la crescita e aumentare la produzione (con controlli anche sugli animali importati) e l’impiego di alcuni antibiotici riservato esclusivamente alle persone.

Tali provvedimenti fanno parte del nuovo approccio One Health, che sottolinea l’urgenza di trattare salute umana e animale come un tutt’uno oltre che di ripensare le modalità di allevamento finora utilizzate. Un approccio che tuttavia sembra del tutto incoerente con la recentissima campagna europea di promozione della carne che prevede ingenti sussidi a uno dei settori che ha maggiormente guadagnato a scapito della nostra salute. 

La crescita esponenziale di allevamenti intensivi e dei consumi di carne e derivati ci espone a rischi sanitari globali, la pandemia in atto è anch’essa una prova di quanto il nostro modo di trattare natura e animali stia mettendo a rischio il nostro futuro. 

Il rischio di insorgenza dell’antibiotico-resistenza che  l’Oms ritiene sarà “una delle maggiori minacce per la salute globale” è alto e il processo è già in atto per via del massiccio uso di antibiotici sugli animali allevati in tutto il mondo. 

Non abbiamo molto tempo per agire, ma sicuramente ciascuno di noi e le istituzioni nazionali e internazionali in particolare devono porsi una domanda fondamentale: cosa possiamo fare ora per evitare questa catastrofe?

La risposta risiede sempre in scelte importanti, come quella di cambiare i nostri consumi, anche a livello personale. Oggi più che mai possiamo dire che le nostre scelte alimentari – come singoli e come gruppo – hanno un impatto enorme sulla vita degli animali, ma anche sulla salute delle persone e sul futuro di tutto il pianeta.


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