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Mucche in un allevamento intensivo

I 6 paradossi sull’allevamento intensivo


Qual è la prima parola che ti viene in mente, pensando ad “allevamento intensivo”?

Probabilmente una di queste: sfruttamento, sofferenza, dolore, morte.

Sono parole forti, che fanno male solo a pensarle.

Eppure sono le uniche che possono descrivere la vita degli animali destinati a diventare cibo.

Combattere lo status quo e cambiare il destino di questi animali è la missione di Animal Equality.

Gli allevamenti, in special modo quelli intensivi, oltre ad arrecare delle sofferenze inimmaginabili e inaccettabili agli animali, nascondono anche altri paradossi di cui non si parla ancora abbastanza.

“Ma in Italia gli allevamenti non saranno mica tutti intensivi, abbiamo le nostre eccellenze, una grande tradizione enogastronomica…”

Purtroppo, mai credenza fu più falsa.

Nel nostro Paese l’85% dei polli sono allevati intensivamente, oltre il 95% dei maiali vivono in allevamenti intensivi e quasi tutte le mucche allevate per il latte non hanno mai visto un pascolo nella loro vita.

Per quanto riguarda i dati europei, più dell’80% degli animali provengono da allevamenti intensivi.

Come vedi, la stragrande maggioranza del sistema produttivo di carne e derivati in Italia e in Europa è di tipo intensivo.

Ma torniamo a parlare di quelli che abbiamo chiamato “I 6 paradossi dell’allevamento intensivo”: vengono volutamente celati all’opinione pubblica perché vanno contro l’interesse dell’industria e soprattutto perché smentirebbero decenni di bugie e pubblicità ingannevoli.

Prenditi il tempo necessario per leggere tutto l’articolo perché stiamo per raccontarti qualcosa che difficilmente leggerai sui giornali o vedrai in tv.

Cominciamo?

PRIMO PARADOSSO: LO SPAZIO

La parola d’ordine degli allevamenti intensivi è: massimizzare. 

Massimizzare la produzione, in primis, per poter massimizzare il profitto.

Se tutti gli animali coinvolti nell’industria della carne italiana fossero liberi di ‘pascolare’, per gli esseri umani non ci sarebbe letteralmente più spazio. 

Le strade, le piazze delle città sarebbero invase da mucche, polli, galline e maiali.

Ed ecco il modo in cui l’industria ha risolto il problema: ammassando quanti più animali possibili all’interno di capannoni – o peggio, chiudendoli in strette gabbie – causando loro terribili sofferenze.

Così reclusi gli animali non hanno modo di esprimere i propri comportamenti naturali:

  • Le scrofe – ingravidate artificialmente per tutta la vita – sono costrette a partorire all’interno di minuscole gabbie di metallo, così piccole da non consentire loro neppure di girarsi, e tantomeno di prendersi cura dei propri cuccioli. La loro sofferenza, sia fisica che mentale, è estrema.
  • Le galline e i conigli sono rinchiusi in piccole gabbie, dove viene loro impedita qualsiasi espressione del comportamento naturale. Per entrambi questi animali le conseguenze dello stress sono atroci, spesso infatti diventano aggressivi fino a ferirsi gravemente a vicenda.
  • I vitelli vengono separati dalle loro madri a poche ore dalla nascita e rinchiusi in box singoli, dove la loro naturale attitudine sociale viene completamente soffocata.
  • I polli – il 95 % dei quali vive in allevamenti intensivi – passano la loro breve esistenza in capannoni bui e spogli, con una densità di circa 18 polli per ogni metro quadro, che equivale a uno spazio vitale di un foglio A4.
  • I pesci negli allevamenti intensivi vivono all’interno di vasche sulla terraferma o in mare, in ognuna delle quali possono vivere fino a 300mila pesci e in condizioni che limitano i loro comportamenti naturali basilari, come nuotare.
  • Gli agnelli non vivono ammassati dentro a dei capannoni, ma soffrono comunque terribilmente nella fase di trasporto verso il macello, dove – anche se cuccioli – nessuno si prende cura cura di loro e patiscono la fame e la sete per viaggi che durano fino a 30 ore consecutive.

Anche se in modi diversi, tutti gli animali allevati a scopo alimentare soffrono in modo indicibile.

Ma non è tutto…

SECONDO PARADOSSO: DA DOVE ARRIVA LA CARNE?

Polli, galline, conigli, oche, maiali, mucche sfruttate per la produzione di latte e gran parte dei bovini allevati per la loro carne vivono chiusi tutta la vita nei capannoni degli allevamenti intensivi.

Solo per alcune razze di bovini allevati per la loro carne è previsto il pascolo libero.

Solo in Italia, si stima che vengano consumati 77kg di carne pro capite all’anno – esclusi pesci e molluschi – mentre gli animali liberi di pascolare nel nostro paese sono una percentuale irrisoria.

Da dove viene tutta la carne consumata in Italia? Devi sapere che arriva anche da altri paesi come Francia, Polonia, Germania e Brasile… sì, anche da oltreoceano.

Ed ecco il secondo paradosso degli allevamenti intensivi ai tempi della globalizzazione: la catena di approvvigionamento è così lunga che un animale allevato e macellato in Brasile, ma la cui carne viene lavorata in Italia, può ottenere il marchio IGP!

E il consumatore non è tenuto a sapere da dove viene realmente quel prodotto e, ignaro, pensa di acquistare un’eccellenza del Made in Italy.

C’è un modo, però, per evitare tutto questo, ed è smettere di consumare carne o derivati. Possiamo porre fine a tutte le crudeltà che gli animali sono costretti a subire durante i trasporti, negli allevamenti e nei macelli eliminando i prodotti di origine animale dalla nostra alimentazione.

Con Love Veg, il progetto di Animal Equality dedicato alla cucina 100% vegetale, cucinare piatti sfiziosi e buoni per gli animali diventa semplicissimo.

TERZO PARADOSSO: IL CIBO

Per nutrire un solo maiale allevato a scopo alimentare sono necessari 2kg di mangime ogni giorno.

Nell’ottica della massimizzazione della produzione e del profitto, il mangime che viene somministrato agli animali è un mangime super proteico, che è studiato per indurre una crescita veloce.

La parte proteica del mangime è rappresentata generalmente da un legume: la soia.

Ovviamente non è possibile coltivare in Italia tutta la soia necessaria per nutrire le centinaia di milioni di animali che ogni anno vivono chiusi negli allevamenti intensivi, perché, anche in questo caso, non c’è spazio sufficiente.

E allora, come facciamo?

La risposta è semplice: compriamo la soia da altri paesi – soprattutto dal Sud del mondo – dove c’è abbastanza spazio per coltivarla… ma il prezzo da pagare è il disboscamento di intere foreste.

QUARTO PARADOSSO: L’INQUINAMENTO

Gli allevamenti intensivi sono responsabili di almeno il 15% delle emissioni globali di gas serra.

Per rendere l’idea, l’intero settore dei trasporti, ossia la somma di tutti i veicoli su strada, di tutti gli aerei, le navi e i treni che si muovono sulla Terra, è responsabile solo del 13% di queste emissioni.

Non è poco, vero?

Senza contare che ci sono anche tutte le sostanze inquinanti e i rifiuti prodotti dall’industria: gli allevamenti intensivi inquinano anche i terreni, le falde e i nostri mari. È stato calcolato che un allevamento di mucche allevate per il loro latte con circa 2500 animali produce più rifiuti di una città di 411.000 persone.

Ma sono anche gli artefici diretti e indiretti di una delle più grandi catastrofi ambientali che la nostra società si trova ad affrontare: la distruzione delle foreste pluviali della Terra. 

Agli allevamenti, sia intensivi che estensivi, è imputabile il 91% della deforestazione della Foresta Amazzonica.

E se vogliamo guardare all’inquinamento anche da un punto di vista solo italiano, i dati non sono confortanti: per capire quale devastante impatto l’allevamento ha sul nostro pianeta, basta addentrarsi nel cuore della Pianura Padana. 

In questo territorio fra Milano, Mantova, Brescia e Cremona si conta la maggiore concentrazione di inquinamento in Italia e – non a caso – si conta la metà della produzione nazionale di suini e un quarto della produzione di bovini, una concentrazione talmente alta che si stima che in queste zone ci siano quasi un maiale ogni due abitanti e circa 180 suini per chilometro quadrato.

Il problema principale è lo spargimento di gas e reflui zootecnici dannosi – emessi sia legalmente sia illegalmente, che provano emissioni di ammoniaca sopra i livelli di allerta.

La produzione di ammoniaca causata dagli allevamenti intensivi infatti rappresenta circa il 57,9% del totale delle emissioni del settore agricolo italiano. 

E poi ci sono i reflui zootecnici, responsabili dell’acidificazione del suolo e dell’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee. Pensa che soltanto gli allevamenti di suini italiani producono oltre 11,5 milioni di tonnellate di feci all’anno.

A pagare le conseguenze di questo sistema non sono solo gli animali rinchiusi ingiustamente negli allevamenti. L’inquinamento, le pratiche scorrette di stoccaggio e lo spandimento dei liquami riguardano anche la salute delle persone e la salvaguardia dell’ecosistema.

QUINTO PARADOSSO: DOPPIA SOFFERENZA

Gli animali allevati per la loro carne soffrono doppiamente: soffrono durante la loro breve vita e patiscono le pene dell’inferno al momento della macellazione, che avviene senza stordimento e tramite sistemi a dir poco brutali.

Questo perché anche dove esistono delle regolamentazioni sull’uccisione degli animali, difficilmente vengono rispettate. Così, anche quando è previsto lo stordimento preventivo degli animali, difficilmente risulta efficace e causa una morte crudele e dolorosa.

Maltrattati, picchiati brutalmente, uccisi senza pietà: gli animali rinchiusi in questi luoghi subiscono violenze di ogni tipo.

Gli atteggiamenti criminosi degli operatori nei macelli sono incentivati sia dall’insufficienza di controlli, sia dalla mancanza di conseguenze penali concrete e severe per chi infrange la legge.

Abbiamo documentato questo e molto altro nelle nostre investigazioni nei macelli, portate avanti da Animal Equality in tutto il mondo a partire dal 2008.

SESTO PARADOSSO: LA FAME NEL MONDO

Sappiamo tutti che la fame nel mondo è la piaga del nostro secolo: circa 1 miliardo di persone ogni giorno, infatti, non hanno accesso al cibo.

La forbice della disuguaglianza tra Nord e Sud del mondo, invece che restringersi, continua a crescere di anno in anno.

Questo a causa di un meccanismo molto semplice: per produrre cibo da fonti animali dobbiamo investire enormi quantità di cibo di origine vegetale. Impieghiamo mesi o anni per far crescere gli animali nei nostri allevamenti e per fare questo dobbiamo investire enormi quantità di mangimi. Questi mangimi, ovviamente, devono venire coltivati.

Oltre un terzo di quello che coltiviamo, infatti, lo diamo da mangiare agli animali che facciamo nascere e obblighiamo a vivere e morire all’interno dei nostri allevamenti.

Eppure, una soluzione attuabile nel breve periodo ci sarebbe: se le terre agricole destinate alla coltivazione della soia fossero destinate alla produzione di cibo per i 2 miliardi di persone gravemente malnutrite, ridurremmo drasticamente il problema della fame nel mondo.

Più carne mangiamo noi, meno risorse avranno a disposizione altre persone. E quando diciamo altre persone, intendiamo le persone più povere del pianeta.

In un mondo fortemente globalizzato, dove non esistono più barriere di alcun tipo e dove gli scambi economici legano indissolubilmente un paese a un altro, una parte del mondo è responsabile di ciò che avviene dall’altra parte del globo.

Animal Equality rilascia inchieste che svelano il lato nascosto della produzione di carne e derivati, quel lato volutamente tenuto nascosto dalle grandi multinazionali.

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