Bresaola, Amazzonia e Pianura Padana, l’inquinamento Made in Italy
Ieri sera è andata in onda su Rai3 una puntata di Report che ha ancora una volta messo in evidenza la correlazione tra inquinamento ambientale e industria zootecnica, con servizi che hanno mostrato la scala globale di questo terribile problema, dal nord Italia all’Amazzonia.
Nel mondo globalizzato di oggi nessun paese è un isola, e seppure la retorica della nostra industria alimentare ci voglia ancora far credere che nel “Bel Paese” la vita contadina scorra come 60 anni fa o prima, ancora una volta abbiamo potuto vedere in prima serata come la verità dell’industria zootecnica “Made in italy” sia fatta in realtà di allevamenti intensivi, import ed export, produzione di liquami in eccesso, inquinamento, occupazione del suolo.. in un grande ciclo che fa male a tutto il mondo: dalle province più a nord dell’Italia, fino alle foreste pluviali.
Lo ha raccontato ieri sera Report con una serie di servizi che potete vedere al completo a questo link
Siamo grati che la Rai abbia mandato in onda il servizio nonostante sia di pochi giorni fa la notizia che l’industria della carne – Assalzoo, Assica, Assocarni, Assolatte, Carni Sostenibili e Una Italia – ha indirizzato una lettera proprio al direttore di Rai3, al presidente della Rai Marcello Foa (e perfino al ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova) per segnalare “l’inaccettabile atteggiamento che sta prendendo piede in numerose trasmissioni della televisione pubblica, volto a creare un pericoloso quanto insussistente collegamento fra la zootecnia come causa all’origine dell’epidemia di coronavirus, oltre che a screditare i produttori italiani di alimenti di origine animale”». Un attacco durissimo e inaccettabile a cui abbiamo dedicato un articolo in solidarietà con i giornalisti e le trasmissioni attaccate dall’industria.
Un viaggio tra i “vasconi del nord italia”
Il primo servizio di Report è stato girato nel nord Italia, dove si trova il più alto concentramento di allevamenti intensivi del Paese e dove si trova anche la più alta concentrazione di PM10 in Italia.
Nel nostro paese infatti vengono allevati 6 milioni di bovini, 7 milioni di ovini, 1 milione di caprini, 8 milioni di suini e 40 milioni di pollame…. nella stragrande maggioranza dei casi sono animali tenuti in allevamenti intensivi. Per provarlo basta ricordare due dati: arrivano da impianti intensivi l’85% dei polli e il 95% dei suini (compresi tutti i derivati). * fonte ISTAT.
E a confermarlo nel servizio di Report è proprio un allevatore stesso, che incalzato dal giornalista Luca Chianca, afferma:
“Il pascolo esiste solo nelle pubblicità”
Ma il problema dell’allevamento intensivo, oltre all’estrema sofferenza causata agli animali che più volte abbiamo rivelato, è la gestione dei liquami. In un singolo capannone, infatti, vivono fino a 1.000 maiali, che giornalmente mangiano e quindi producono urina e feci. Questi vengono detti liquami.
Gli allevatori prendono questi liquami e li conservano in vasconi o “lagoni” posti al di fuori degli allevamenti, all’interno dei quali vengono stipati centinaia di migliaia di metri cubi di liquami, che rimangono qui fino a quei periodi dell’anno in cui la normativa prevede la possibilità di spargerli sui campi circostanti.
Anche laddove i liquami vengono gestiti regolarmente – ovvero stipati correttamente nei vasconi esterni, e rilasciati solo nei periodi in cui è legale farlo, con i metodi previsti dalla legge – la situazione è critica poiché ci si trova di fronte ad un numero altissimo di rifiuti altamente inquinanti da gestire. I liquami infatti rimangono nei vasconi all’aria aperta tutto l’inverno, evaporando e rilasciando così nell’aria grandi quantità di ammoniaca che contribuisce alla formazione di PM10; numerosi studi hanno evidenziato una correlazione tra esposizione acuta a particolato aerodisperso (come il PM10) e sintomi respiratori, alterazioni della funzionalità respiratoria, ricoveri in ospedale e mortalità per malattie respiratorie. Inoltre, l’esposizione prolungata nel tempo al particolato, già a partire da dosi minime, è associata all’incremento di mortalità per malattie respiratorie, di patologie quali bronchiti croniche, asma, riduzione della funzionalità respiratoria e di rischio di tumore delle vie respiratorie.
E il problema si fa ancora più grave considerando che le leggi in vigore non vengono sempre rispettate, anzi.
A detta di un allevatore anonimo intervistato durante il servizio di Report, infrangere la legge è prassi comune ed essere colti sul fatto un fenomeno raro. Per questo ci sono allevamenti su tutto il territorio italiano che non gestiscono adeguatamente i liquami: non hanno vasconi a norma, disperdono i liquami durante tutto l’anno o con le modalità sbagliate (ad esempio con irrigazione ad alta pressione che contribuisce alla dispersione nell’aria degli inquinanti) o che non trattano correttamente i campi dopo averli irrorati di liquami contribuendo così alla dispersione degli inquinanti nella falda acquifera, o addirittura chi sversa direttamente i liquami nei canali che poi sfociano nei fiumi e, alla fine, arrivano al mare.
Del resto, lo stesso Presidente di Coldiretti, Ettore Prandini – che è anche un imprenditore nel settore dell’allevamento con un’azienda di oltre 800 mucche da latte – è stato multato per uno spandimento fuorilegge, ovvero per aver sparso liquami sul terreno in un periodo in cui era vietato. Multa che, stando alle sue affermazioni a Report, il Presidente di Coldiretti – l’associazione che rappresenta a livello istituzionale il settore dell’agricoltura e della zootecnica – non ha comunque mai pagato.
Durante la puntata si è anche creato un interessante parallelismo contrapposto: mentre Marco Bartoli, del dipartimento di Bioscienze dell’Università di Parma, spiega al giornalista di Report che, ad esempio, nell’area del fiume Oglio – che scorre in Lombardia, nelle province di Brescia, Bergamo, Cremona e Mantova – si trova una concentrazione esagerata di azoto, dovuto all’eccesso di liquami, l’assessore all’Agricoltura della Lombardia sostiene che in tutta la Regione c’è ancora bisogno di azoto per fertilizzare i terreni. Senza però considerare che solo nella zona del Bresciano – dove sarebbero consentiti 170 kg di azoto per ettaro – se ne trovano 500 kg per ettaro, e quello che non viene assorbito finisce diretto nella falda. E le concentrazioni dei nitarti sono più alte dove ovviamente l’attività zootecniche sono di più, come dimostrano gli studi del Dottor Marco Bartoli.
Secondo i dati ARPA – l’Agenzia regionale per la protezione ambientale – in Lombardia l’85% dell’ammoniaca proviene dai liquami prodotti da allevamenti, e l’ammoniaca è uno dei principali fattori per la formazione del PM10.
Un altro problema posto dal servizio di Report è molto attuale, ovvero, il PM10 ha un ruolo nell’aiutare la diffusione di virus, come ad esempio il Coronavirus? Il dibattito è ancora aperto e non ci sono ancora certezze scientifiche, anche se le alte concentrazioni di PM10 nell’aria potrebbero avere un ruolo nell’aumento della diffusione del virus.
Dal nord Italia agli zebù dell’Amazzonia
Come fa la Valtellina a rispondere alla domanda nazionale (e non solo) di bresaola? Molto semplice: non lo può fare, ed è proprio un allevatore valtellinese a porre il problema, perché se troppe persone vogliono mangiare un prodotto, bisogna ricorrere all’import di carne da altri paesi o a soluzioni sempre più intensive.
Nel caso della Bresaola Valtellinese la risposta viene dal Brasile. Rigamonti, la principale azienda produttrice di bresaola della Valtellina, di recente comprata dalla multinazionale brasiliana JBS, dichiara che la produzione dei suoi prodotti include solo il 3% di carne italiana. Tutta la restante carne è carne di Zebù proveniente dal Brasile, casa natale della JBS.
La JBS in Brasile compra carne dagli allevatori, la macella e la distribuisce in giro per il mondo, compresa l’Italia, ma negli ultimi anni è stata coinvolta in numerose inchieste per aver comprato carne da allevatori accusati di aver deforestato illegalmente in Amazzonia per guadagnare sempre più aree da destinare al pascolo.
La richiesta di carne dal mondo porta le aziende a spingersi anche nel nord del Brasile, nel cuore dell’Amazzonia, per trovare nuovi terreni da destinare al pascolo. Nello stato del Parà, dove i nostri investigatori hanno registrato immagini impressionanti alla fine della scorsa estate, il tasso di deforestazione è aumentato del 30% nell’ultimo anno, e così migliaia di km quadrati di foresta vengono bruciati per fare spazio ai pascoli.
Ma la deforestazione è un pericolo, non solo per il suo ruolo nel cambiamento climatico, ma anche per la diffusione di nuove malattie zoonotiche, come spiega bene il Dottor Moreno Di Marco, ricercatore dell’Università La Sapienza di Roma – intervistato nel corso del programma – perché, sgretolando gli ecosistemi e tagliando le barriere naturali tra noi e gli animali selvatici, creiamo le condizioni e i presupposti per i salti di specie poiché aumentiamo la possibilità che animali selvatici entrino in contatto con noi o con altri animali che vengono allevati, nel caso del Brasile ad esempio gli zebù.
Fare spazio per allevare più bovini e coltivare più soia da usare come mangime proprio negli allevamenti intensivi, questo è il problema chiave che scatena la deforestazione. Guardando i dati è chiaro perché il Brasile negli ultimi anni è passato da importare carne dall’Argentina a diventare il numero uno nell’esportazione di carne bovina nel mondo: solo l’Italia ne importa 45mila tonnellate, e per questo il nostro Paese è nono nella classifica mondiale per chi contribuisce alla deforestazione.
Cosa possiamo fare?
Il sistema di produzione di carne è un fallimento: produce inquinamento che mette a rischio la salute del nostro Paese e degli italiani, e su scala più ampia mette a rischio la salute globale di tutto il Pianeta.
Fino a quando potremo andare avanti? Fino a quando abbatteremo l’ultimo albero, uccideremo l’ultimo animale o pescheremo l’ultimo pesce?
Il rapporto che abbiamo avuto con gli animali e la natura fino a qui ci ha portato a questo momento di grave instabilità e di pericolo, poiché anche l’attuale pandemia che stiamo vivendo è legata a doppio filo alla deforestazione, agli allevamenti e alle violenze sugli animali selvatici; è ora di porre fine alla sofferenza di miliardi di animali in tutto il mondo e di costruire un futuro migliore per il nostro pianeta.
Ora più che mai è importante capire che le scelte personali possono fare molto per cambiare il futuro di tutti, cambiare i nostri consumi ha un impatto enorme sulla vita degli animali, ma anche sulla salute delle persone e sul futuro di tutto il pianeta, scegli una dieta a base vegetale!