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Come funziona l’industria ittica globale? È uscito Until the End of the World, il documentario che lo racconta


Oggi l’acquacoltura è l’industria alimentare che cresce più rapidamente al mondo, e non per caso. Organismi come la FAO, il Food system Summit delle Nazioni Unite, l’Unione Europea e i singoli Paesi membri incoraggiano attivamente la crescita e il moltiplicarsi degli allevamenti di pesci, ritenuti un ingrediente fondamentale della “Blue Transformation”, ovvero la strategia per rendere più sostenibile il nostro sistema alimentare. 

L’idea è semplice: aumentiamo gli allevamenti, in modo che potremo consumare più pesce e meno carne, e ridurre al tempo stesso la pesca eccessiva in regioni del Pianeta come il Mediterraneo.

Quando tre anni fa abbiamo iniziato a lavorare sul documentario Until the End of the World la prima domanda che ci siamo posti è stata proprio questa: è giusto finanziare con ingenti fondi pubblici, che sarebbero destinati alla trasformazione “green” del nostro sistema alimentare, la crescita smisurata di allevamenti intensivi acquatici?

Il film racconta quello che abbiamo scoperto nel corso di questa investigazione, partita dal Centro Italia, che ci ha portato fino alle lande desolate della Patagonia Cilena

Nella prima tappa di questo viaggio, abbiamo scoperto che soprattutto in Occidente i principali beneficiari dei fondi per l’acquacoltura sono allevamenti di specie carnivore più pregiate, in particolare i salmoni, in Nord Europa e nelle Americhe, le trote, e poi le spigole e le orate, soprattutto nel Mediterraneo.

Il motivo per cui proprio queste specie hanno attratto i maggiori investimenti è semplice da intuire: il profitto. Nel caso del salmone, produzione e consumo in pochi decenni sono cresciuti esponenzialmente, creando un mercato che vale nel mondo oltre 33 miliardi di dollari. Il settore delle spigole e delle orate non è altrettanto sviluppato, ma promette simili potenzialità di guadagno. E gli investitori, spesso fondi di investimento, non sono rimasti a guardare.

Abbiamo dato un volto a questo fenomeno concentrandoci sul Mediterraneo, andando a vedere gli allevamenti che dalla Grecia e dalla Turchia riempiono i banchi del pesce dei nostri supermercati con animali allevati a prezzo bassissimo.

Qui abbiamo incontrato decine di comunità che da alcuni anni combattono una lotta contro il proliferare delle gabbie di pesci lungo le proprie coste. Allevamenti intensivi in mare, che stanno minando le economie locali basate sul turismo, uccidendo i fondali con reflui e sostanze chimiche, compromettendo la biodiversità del mare, lasciando in cambio solo una quantità limitata di posti di lavoro.

Eppure, nel dibattito internazionale, l’acquacoltura è considerata necessaria: come faremo a sfamare una crescente popolazione mondiale, se non allevando pesci, considerando che la pesca ha più che saturato le capacità del mare?

Questa domanda l’abbiamo sentita ripetere decine di volte. Ma quello che abbiamo visto è raccontato è una storia molto diversa. Nella seconda parte del nostro viaggio in Africa occidentale, abbiamo incontrato altre comunità, stavolta di pescatori e mercanti, che rischiano la fame perché non hanno più pesce da portare a tavola. Il motivo? La pesca eccessiva, legata alla produzione di farina e di olio di pesce per la fabbricazione di mangimi per gli allevamenti ittici in Cina e in Europa. 

A questo punto abbiamo toccato con mano un evidente corto circuito: investiamo in un’industria che vuole sfamare il Pianeta, e per farlo preleviamo pesce selvatico dove ce ne sarebbe più bisogno, per ricavarne mangimi, usati a loro volta per produrre filetti di “costoso” salmone norvegese, non certo accessibile a tutte le fasce della popolazione mondiale. 

Un corto circuito che si aggrava sul piano etico, se pensiamo che nel mondo oggi sono allevati 124 miliardi di pesci e che tra tra 490 e 1.100 miliardi di pesci (la metà di tutti i pesci pescati ogni anno, in termini di individui) vengono usati ogni singolo anno per produrre mangimi.

Un corto circuito, infine, di cui è perfettamente consapevole anche l’industria, che da anni sta cercando di ridurre la quantità di pesce selvatico che utilizza nei mangimi. E per farlo, sta lavorando per sfruttare nuove “materie prime”: una tentativo che indaghiamo nell’ultima parte del film, l’ultima tappa del nostro viaggio, che ci ha portato fino alla fine del mondo, tra le acque gelide dell’Antartide.

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