“COW IS NOT VEG”: ECCO PERCHÉ GLI ALLEVAMENTI DI BOVINI INQUINANO
Il 29 settembre 2022 Assocarni, in collaborazione di Coldiretti, ha organizzato un summit internazionale dal titolo “Cow is Veg”. L’incontro si è focalizzato sui dati raccolti dalle due associazioni di categoria a proposito della riduzione degli allevamenti di bovini in Italia e del loro impatto ambientale, definito dai partecipanti “sostenibile”. Non sono mancate anche le critiche alla proposta di ridurre il numero di mucche e vitelli usati all’interno degli allevamenti italiani e alla strategia europea Farm to Fork.
In questo articolo, abbiamo preso in considerazione le principali affermazioni emerse durante l’evento – in cui il tema dello sfruttamento animale nell’industria alimentare non è stato in alcun modo menzionato – e le abbiamo confrontate con dati e ricerche scientifiche che ridimensionano e smentiscono alcune delle tesi sostenute da Assocarni e Coldiretti.
IL NUMERO DI ALLEVAMENTI È DIMINUITO, MA LE LORO DIMENSIONI SONO AUMENTATE
Il Presidente di Assocarni, Luigi Scordamaglia, ha innanzitutto presentato i numeri legati all’allevamento dei bovini sfruttati per il loro latte e la loro carne in Italia:
Parliamo di un comparto che dagli anni ’60 ad oggi ha visto crollare drasticamente il numero dei suoi allevamenti, registrando un calo del 91%: 60 anni fa erano 1 milione e mezzo, così come è diminuito il numero di capi allevati, con un calo del 35%, passando da quasi 10 milioni di unità a poco più di 6 milioni.
Abbiamo verificato e i dati presentati da Scordamaglia, in questo caso, sembrano corretti. Anche se è necessario sottolineare alcuni elementi importanti che ridimensionano il fenomeno descritto.
Secondo l’ultimo report del CREA – Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria che risale al 2017, il numero di allevamenti italiani di bovini è in effetti significativamente diminuito negli anni. Tuttavia, come riporta anche Scordamaglia, la ricerca mostra che ad essere diminuito in misura largamente minore – quasi un terzo – è il numero di animali allevati.
“Rispetto al 2010 il numero di aziende con allevamento bovino è diminuito del 12% mentre i capi bovini del 4%. Queste riduzioni hanno interessato tutte le circoscrizioni italiane e la loro dinamica ha comportato un ampliamento delle dimensioni medie aziendali in termini di consistenza bovina” afferma il report.
Ciò significa che se da un parte il numero degli allevamenti di mucche e vitelli in Italia è diminuito, dall’altra le aziende zootecniche rimaste hanno aumentato il proprio volume di mucche e vitelli sfruttati al loro interno.
Guarda come vivono le mucche e i vitelli allevati in Italia
Nell’ultimo decennio, inoltre, il numero di animali allevati, anziché diminuire è rimasto tutto sommato stabile. Comparando il numero dei bovini allevati in Italia negli ultimi 13 anni, scopriamo infatti che nel 2009 erano 6,160 milioni, mentre oggi sono 5,925 milioni, una piccola flessione insomma, per altro in aumento rispetto al 2020, quando i bovini sfruttati a scopo alimentare erano 5,693 milioni.
Posto che dagli anni ‘60 ad oggi il numero di allevamenti di mucche e vitelli si è fortunatamente ridotto – seppur in modo non lineare ma con dei picchi di produzione attorno agli anni ‘80 -, i dati esaminati richiedono quindi di compiere una distinzione importante: anche se gli allevamenti sono diminuiti, in proporzione è diminuito molto meno il numero di mucche e vitelli sfruttati al loro interno favorendo la crescita in termini di portata degli allevamenti intensivi italiani.
PERCHÉ GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI INQUINANO CON LE LORO EMISSIONI
Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti, è intervenuto parlando, tra le altre cose, degli effetti che la produzione di carne in Italia ha sull’ambiente: “La carne italiana nasce da un sistema di allevamento che per sicurezza, sostenibilità e qualità non ha eguali al mondo”.
Giuseppe Pulina, Ordinario di Etica e sostenibilità delle produzioni animali all’Università di Sassari ha aggiunto che “Il settore dell’allevamento bovino in Italia è già net zero per quel che riguarda i gas climalteranti” sostenendo che il nostro Paese si conferma tra i più virtuosi al mondo in termini di bilancio delle emissioni degli allevamenti bovini.
In tema di sostenibilità, l’IPCC definisce come net zero “l’equilibrio tra la quantità di gas serra prodotti dalle attività umane e la quantità rimossa dall’atmosfera”. Rispetto alla situazione italiana, lo studio di Greenpeace “Il peso della carne” in collaborazione con l’Università della Tuscia dichiara che il sistema agricolo e quello zootecnico in Italia sono nel loro insieme insostenibili e creano un deficit di risorse naturali fra domanda e offerta.
Lo studio, coordinato da Silvio Franco, docente del Dipartimento di Economia, Ingegneria, Società e Impresa dell’Università della Tuscia, utilizza il metodo dell’impronta ecologica, un indicatore in grado di esprimere l’impatto di un dato settore – in questo caso gli allevamenti – confrontandolo con la capacità del territorio in cui è inserito di fornire risorse per compensare tali attività.
La ricerca del professor Franco mostra che il settore zootecnico consuma il 39% delle risorse delle aree agricole italiane usandole per compensare solo le emissioni di gas serra provenienti dagli animali allevati. In particolare, lo studio stima la biocapacità della superficie agricola nazionale in 32,3 milioni ettari globali e l’impronta ecologica delle emissioni della zootecnia italiana in 12,7 milioni ettari globali.
Aggiungendo a questo valore l’impronta ecologica dalle emissioni delle attività agricole – 36,7 milioni ettari totali – si ottiene il bilancio ecologico delle emissioni del settore agricolo e zootecnico a cui Franco fa riferimento. Si tratta dunque di un bilancio in negativo che mostra come le emissioni di zootecnica e settore agricolo in Italia siano insostenibili.
Come gli esperti tengono a precisare, inoltre, il 39% è una stima al ribasso. Infatti, per calcolare il peso ambientale degli allevamenti lo studio prende in considerazione solo le emissioni dirette di CO2 provenienti dagli animali allevati rispetto alle risorse naturali disponibili sul territorio. Non sono invece calcolati l’impatto ambientale delle coltivazioni destinate a diventare mangime, le risorse utilizzate per gestire gli allevamenti e neppure l’importazione di mangimi.
Questo significa che sicuramente il settore degli allevamenti intensivi in Italia non è net zero. Ma andiamo a vedere più nel dettaglio l’impatto di cui gli allevamenti di bovini sono responsabili.
Con 6 milioni di mucche e bovini concentrati in più di 325 mila allevamenti, l’Italia è il quinto Paese in Europa per numero di bovini allevati. La maggior parte di loro è confinata in allevamenti del Nord Italia, in particolare Lombardia, Veneto e Piemonte. Ciò che Prandini e Paulina dimenticano di dire, è che oltre ad essere gli animali che richiedono la maggiore quantità di cibo, e quindi di risorse in termini di acqua e mangime – 6 calorie di mangime per ogni caloria di carne prodotta -, mucche e vitelli sono anche gli animali che emettono le emissioni di gas più pericolose.
Nel libro “Clima, come evitare un disastro” di Bill Gates viene spiegato che solo dalle deiezioni di mucche e vitelli deriva infatti la metà dei gas più inquinanti presenti in atmosfera, ovvero il metano e il protossido di azoto. Il primo provoca un riscaldamento per molecola 28 volte superiore all’anidride carbonica, mentre il secondo un riscaldamento 265 volte più intenso. Queste caratteristiche fanno sì che metano e protossido di azoto pesino più dell’80% rispetto a tutti gli altri gas serra dovuti all’attività agricola e zootecnica.
Secondo i dati ISPRA la riduzione delle emissioni che in effetti in Italia c’è stata nel settore agroalimentare è soprattutto una conseguenza della riduzione di questi due gas altamente inquinanti. Tuttavia, ciò che l’ISPRA afferma e che è necessario sottolineare con forza è che nel comparto zootecnico questa diminuzione dell’inquinamento – circa il 10% per il metano e del 18,5% per il protossido di azoto dagli anni ‘90 – è avvenuta quasi esclusivamente grazie alla riduzione del numero di animali allevati.
Proseguire in questa direzione, quindi, non riduce solo la sofferenza di milioni di animali sfruttati dall’industria della carne, ma fa bene anche all’ambiente.
L’UNIONE EUROPEA VUOLE RIDURRE MUCCHE E VITELLI ALLEVATI, MA CON DELLE DISTINZIONI
Il Presidente di Assocarni Scordamaglia ha anche dichiarato che “Le politiche che arrivano da Bruxelles sembrano voler andare inesorabilmente verso lo smantellamento della produzione delle nostre eccellenze, e dell’allevamento in primis”.
Per contenere le emissioni inquinanti che derivano dal settore degli allevamenti, la Commissione europea ha di recente proposto di rivedere la direttiva sulle emissioni industriali, includendo per la prima volta anche gli allevamenti intensivi di bovini tra gli impianti che devono ottenere specifiche autorizzazioni ambientali dalle autorità nazionali per poter operare – e inquinare – entro certi limiti. In particolare, gli allevamenti con più di 150 mucche e vitelli dovrebbero ricevere l’autorizzazione e il controllo delle emissioni come accade per i grandi impianti industriali.
Il Centro comune di ricerca della Commissione europea (JRC) riporta infatti che il settore zootecnico è responsabile dell’80% delle emissioni di ammoniaca nell’aria e di azoto nell’acqua. Secondo l’European Nitrogen Assessment l’inquinamento da azoto costa ogni anno all’Unione europea fino a 320 miliardi di euro.
Se Coldiretti e Assocarni ritengono che il sistema degli allevamenti italiano possieda davvero un primato di eccellenza nel bilancio delle proprie emissioni inquinanti, allora non hanno nulla da temere.
L’ampliamento previsto dalla normativa copre solo il 13% delle aziende zootecniche più grandi dell’Unione europea responsabili del 60% delle emissioni di ammoniaca e del 43% di quelle di metano di tutto il settore, escludendo la stragrande maggioranza degli allevamenti europei, nonché italiani. Inoltre, le norme operative diventeranno vincolanti non prima del 2029, dando così agli allevatori il tempo di adeguarsi.
Sul fronte dell’ambiente e del benessere animale, l’Unione europea si è espressa ultimamente in modo chiaro, stabilendo il contrasto al consumo eccessivo di carne e la definizione di indicatori comuni scientificamente fondati sul benessere degli animali come i due strumenti con cui intende armonizzare e migliorare gli standard comunitari.
Ridurre gli allevamenti intensivi di bovini, dunque, non è solo uno slogan, come Assocarni e Coldiretti sostengono, ma una parte integrante del Green Deal europeo e della strategia Farm to Fork che si discosta da quello che finora è stato il lungo percorso tutto al contrario portato avanti dalle istituzioni europee.
Tra il 2016 e il 2020, infatti, la Commissione europea ha speso il 32% del proprio budget per la promozione dei prodotti agricoli – pari a 776,7 milioni di euro – in campagne pubblicitarie per carne e latticini e il 28% per la promozione di “panieri” misti di prodotti, quasi tutti comprendenti carne e latticini, per una spesa complessiva compresa tra i 200 e i 250 milioni di euro.
Insomma, la realtà attorno all’impatto ambientale degli allevamenti intensivi è più complessa rispetto a quanto sostenuto da Assocarni e Coldiretti. Dietro ai numeri degli allevamenti, dei bovini allevati e dell’impatto ambientale ed economico che questi comportano, non si deve però dimenticare che ci sono esseri senzienti che ogni giorno vengono sfruttati crudelmente in un’ottica di mero profitto.
Attraverso le inchieste Animal Equality denuncia i terribili abusi che avvengono all’interno dell’industria del latte e della carne di cui sono vittime questi animali intelligenti e sensibili che non meritano trattamenti così ingiusti.